L’innovazione e i presupposti della crescita

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In linea di principio, vi sono due differenti approcci all’innovazione in economia: l’approccio microeconomico e l’approccio macroeconomico, il primo tratta l’Innovazione in relazione all’impresa, il secondo invece si occupa di studiare quanto l’innovazione incida sul welfare di un sistema economico complesso come è quello di un Paese. Di fatto possiamo affermare che il secondo approccio in linea generale è per molti versi la risultante del primo.

 

L’innovazione in Microeconomia

 

Prima di introdurre il concetto di innovazione all’interno della realtà imprenditoriale occorre preliminarmente focalizzarsi sulla definizione d’Impresa, o per meglio dire sulle numerose definizioni che il succedersi delle differenti scuole di pensiero di economisti hanno inteso attribuire al concetto di impresa. Attraverso il pensiero della scuola neoclassica l’idea di impresa ebbe ad avere differenti contorni con al centro sempre la relazione impresa/mercato. L’impresa venne ad essere definita inizialmente come una funzione di produzione alternativa al mercato, atta a perseguire la massimizzazione dei profitti e a trasformare i suoi fattori primari di produzione (capitale e lavoro) in beni e servizi. Figurativamente l’impresa è pensata come un sorta di black box che trasforma input in output. Per i primi neoclassici ciò che realmente distingue l’impresa dal mercato è la struttura relazionale al loro interno, ovvero mentre il mercato è il luogo in cui le relazioni sono paritarie, l’impresa è il luogo in cui le relazioni sono autoritarie e si sviluppano in modo verticale attraverso la “rule of command”.
Nel tempo, la scuola neoclassica attenua il contrasto impresa/mercato, introducendo la cosiddetta “teoria delle transazioni” che definisce l’impresa come una funzione di produzione a cui fa capo un insieme (nexus) di contratti costituiti tra l’imprenditore e i proprietari degli input necessari alle attività dell’impresa. Tali contratti sono di natura analoga a quelli che regolano il mercato, e in questa logica, la dimensione ottima dell’impresa è quella che coincide con il numero massimo di contratti che l’imprenditore riesce a controllare con efficacia.
L’ulteriore evoluzione della teoria neoclassica, supera il concetto di impresa come insieme di contratti e introduce l’idea di impresa come processo di accumulazione di conoscenza, attraverso il quale, essa riesce ad organizzare le proprie strategie per raggiungere i propri obbiettivi.

Joseph Shumpeter, nella sua “teoria dello sviluppo”, abbandona la teoria neoclassica e integra il concetto di innovazione con la definizione di impresa. Egli afferma che il reale obbiettivo dell’impresa non é quello di massimizzare il profitto, ma quello di introdurre elementi di innovazione per competere sul mercato in modo dinamico al fine di differenziarsi dalle altre imprese. La massimizzazione del profitto è la logica conseguenza di tale processo. L’innovazione in quanto tale genera differenziazione dai competitors, ergo l’azienda che innova, ceteris paribus, modifica di fatto il suo essere “price taker” rispetto al mercato e avvicina quest’ultimo alle strutture di oligopolio o di monopolio, allontanandolo dalla concezione ideale di concorrenza perfetta tipica dei neoclassici.
L’innovazione di successo, si ha quando un’impresa riesce a trarre profitto da un nuovo sapere tecnologico determinato da un processo interno di ricerca e sviluppo. Ciò implica che l’impresa innovatrice modifica la propria soglia dimensionale e a tal riguardo, Shumpeter introduce il concetto di Dimensione Ottima Minima (DOM) dell’impresa, che viene ad essere determinata dall’aumentare dei volumi di produzione al crescere della domanda dei consumatori o al diminuire della struttura dei costi di processo. Quindi, l’innovazione di successo non é compatibile con la struttura di piccola impresa.
L’innovazione può concretizzarsi come:
innovazione di prodotto: che riguarda sia un prodotto totalmente innovativo (innovazione drastica), sia un prodotto con caratteristiche specifiche innovative per cui i consumer ne avvertono la differenza dagli altri della stessa specie;
innovazione di processo e/o organizzativa: che incide sui sistemi produttivi o distributivi consentendo di utilizzare i fattori di input con maggiore efficienza o anche sulla struttura organizzativa e si identifica in nuove ripartizioni delle risorse umane al fine di ottimizzare i processi sempre nel segno dell’efficienza;
Ognuna di questi modalità di innovazione condiziona i profitti di una impresa:
– l’innovazione di prodotto aumenta la quantità venduta e quindi la quota di mercato o anche il prezzo di vendita;
– l’innovazione di processo e quella organizzativa riducono i costi unitari di prodotto.
In generale poi, l’aumento della DOM in parallelo con  la la crescita dei volumi prodotti, incide positivamente sulle economie di scala, riducendo in tal modo i costi fissi di esercizio.

Pensare ad una crescita costante della DOM nel tempo, sarebbe però un errore. Ogni forma di innovazione tecnologica, se da un lato è fattore fondamentale sull’aumento della dimensione di una impresa, dall’altro, proprio la nuova tecnologia rende il mercato appetibile per potenziali nuovi entranti che causano il frazionamento della quantità domandata che a sua volta riduce il livello della DOM delle imprese già presenti. Per induzione, possiamo quindi affermare che se il vantaggio competitivo generato da un processo innovativo di successo avvicina inizialmente il mercato di riferimento a condizioni di oligopolio o monopolio, il progresso tecnologico, nel tempo, riconduce i mercati verso la concorrenza perfetta. Quest’ultima non è quindi una condizione pre-determinata come inteso dai neoclassici, ma piuttosto, come introdotto da Shumpeter, l’evoluzione di un processo di crescita strettamente connesso al concetto di innovazione.

 

L’innovazione in Macroeconomia

 

Il miglioramento del welfare, ovvero delle condizioni di benessere economico di un sistema Paese o sistema macro, è strettamente connesso alla crescita, ovvero alla capacità del sistema stesso di sviluppare nuova ricchezza tale da mantenere il benessere collettivo a livelli superiori alla cosiddetta “soglia di povertà”. E’ però necessario che la crescita venga incanalata in una struttura socio-economica che sia orientata verso un benessere omogeneo, ciò significa che la nuova ricchezza generata venga ad essere re-distribuita in maniera equa. Il paradigma crescita sinonimo di benessere non sempre si sposa con le realtà dei sistemi macro e, considerando che uno dei driver fondamentali della crescita è l’innovazione spesso intesa come progresso tecnologico, occorre che i processi di R&D agiscano all’interno di un sistema Paese che garantisca condizioni di crescita coerenti con parametri che possano garantire l’armonia tra le differenti classi sociali. Il tema riguardo un modello di crescita sostenibile nella sua dimensione sociale, ha appassionato molti dei maggiori economisti dell’ultimo ventennio. Il Nobel per l’economia Robert Solow può essere definito uno dei maggiori studiosi delle dinamiche della crescita di medio lungo termine in ambito macro. Egli, attraverso un modello atto a definire la contabilità nazionale della crescita, definisce il Prodotto Interno Lordo (PIL) di un Paese come funzione di due fattori: Capitale (K) e Lavoro (L) e di due parametri: α che definisce l’elasticità o produttività marginale del PIL al capitale e β che definisce l’elasticità o produttività marginale del PIL al Lavoro. Questi due parametri definiscono di fatto la quota di reddito destinata rispettivamente a K ed a L, con β = α-1.
Solow, partendo da questa funzione detta anche di Cobb Douglas, attraverso una serie di passaggi matematici arriva a derivare la cosiddetta equazione della crescita, a cui ai fattori menzionati egli  aggiunge il Fattore Totale della Produttività con cui vuole identificare lo stato della tecnologia del Paese, cioè la sua capacità di determinare le corrette condizioni socio-economiche e ambientali per permettere una crescita sostenibile ed equa. Quindi, per il nobel statunitense i parametri della crescita economica sono connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema in cui operano, viceversa tutti i Paesi raggiungerebbero lo stesso livello di crescita. Tali caratteritstiche, possono primarimanete essere ricondotte alla redistribuzione dei risparmi operata dal sistema bancario, alla politica economica (se orientata a stimolare il risparmio o i consumi), al livello di apertura agli investitori esteri e infine a quanto viene ad essere reinvestito in ricerca e sviluppo rispetto alla nuova ricchezza generata dalla crescita.
Il modello costruito da Solow, pur tenendo in conto le singole peculiarità dei differenti Paesi, annulla il fattore occupazione assumendo la percentuale di occupati pari al 100%, ma tale condizione è molto difficile da realizzarsi nella realtà dei differenti agglomerati macro. Inoltre non si può non rilevare una certa incongruenza nella dicotomia tra il concetto di capitale aggregato e quello relativo alla produttività marginale. Non a caso le scuole di pensiero successive pur partendo dal modello in questione, si occuparono di svilupparlo focalizzandosi nel definire meglio il tasso occupazionale e la relazione Capitale/Produttività.

L’approccio “Neoclassico” definisce il valore generato per qualsiasi tipo di innovazione declinandolo in Valore sociale (VS), ovvero il beneficio prodotto da una certa innovazione al netto del Valore Privato (VP), ove per VP si intende il profitto generato dall’innovazione a favore di chi la introduce. Da ciò si deduce che, per i neoclassici, l’innovazione all’interno di un economia di mercato deve essere un bene escludibile ovvero un bene non disponibile a tutti i componenti del sistema. Questo al fine di garantire a chi innova un valore privato necessario per coprire i costi di ricerca e sviluppo e contemporaneamente finanziare e incentivare lo studio di nuove tecnologie. Se un Paese vuole poter diffondere a livello macro l’insieme delle innovazioni prodotte a livello micro e quindi orientarsi verso la crescita pur nel rispetto del mercato e del suo equilibrio naturale, deve poter garantire per un verso la sostenibilità del vantaggio competitivo a chi innova tale da garantire un adeguato VP e per altro verso orientarsi verso la tutela degli equilibri sociali, atti a sostenere una crescita adeguatamente ridistribuita tra le differenti componenti della comunità. Un primo passo in questa direzione, sarebbe quello di pianificare ed organizzare dei cluster di ricerca in differenti aree geografiche che tengano conto di specifiche ambientali tali da garantire le migliori condizioni possibili ai processi di ricerca. Parafrasando Paul Krugman, questi agglomerati tecnologici devono tener conto fondamentalmente di tre ordini di variabili: la localizzazione dei fattori primari di produzione, l’efficienza dei sevizi di logistica e un soddisfacente livello di connessioni tra imprese fornitrici e produttrici in un processo di filiera non standardizzato. Ci troveremmo quindi di fronte a nuove forme di processi economici quelle che molti studiosi definiscono economie esterne positive o di agglomerazione che sono le fondamenta per una solida struttura macro orientata ad innovare. Per realizzare in concreto tutto ciò, occorre un programma politico che, in linea con il ciclo di vita dei cluster tecnologici, sappia orientare ed incentivare le imprese verso i siti più adatti ai loro processi produttivi con l’obbiettivo di ottenere un processo cumulativo continuo che autoalimentandosi crea rendimenti crescenti. Inoltre è necessario prevenire la fase discendente del cluster attraverso una regolamentazione che impedisca i fenomeni di congestione e di standardizzazione, allontanando quanto più in là nel tempo la fase di declino.

Politiche seriamente orientate all’innovazione e quindi ad una crescita sostenibile, al di la di effimeri slogan, devono quindi dapprima poter incentivare ed orientare la struttura organizzativa a livello di micro-sistema e poi, a livello di sistema macro, saper armonizzare tra le diverse classi sociali, il plusvalore di ricchezza generato.

One Comment

  1. Molto interessante il tuo articolo Gaetano. La mia visione attuale dell’economia è quella di un pianeta fatto d’acqua in agitazione. Fatto di creste. Quelle alte sono i paesi ricchi e quelle basse i paesi poveri (intesi come reddito pro capite). Il denaro scorre dai paesi più ricchi a quelli più poveri per effetto della globalizzazione: che tende a far produrre nei paesi poveri e a far comprare le merci nei paesi ricchi. Un mare in agitazione, per come la vedo io, che porterà a far diventare ricchi i paesi poveri e poveri quelli ricchi in cicli che dobbiamo pensare proprio come un mare agitato. In questa visione occorre capire cosa vuol dire un mare calmo: cioè quei momenti in cui per congiuntura o per fine del ciclo, i livelli, queste differenze di potenziale che fanno scorrere denaro, saranno tutti uguali. Occorre poi considerare che i processi di innovazione per logica tendono e devono tendere alla riduzione del costo del lavoro, sia riducendo i tempi di lavorazione sia riducendo la forza lavoro: penso all’automazione industriale, e a quello che sta per succedere nel mondo dei trasporti con la guida automatica. Un giorno dovremo metterci d’accordo su cosa vuol dire produrre e consumare. Su cosa vuol dire essere esseri umani in un mondo senza troppo lavoro.

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