Organizational Design: Viaggio tra i modelli organizzativi d’impresa

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Una delle più belle definizioni di organizzazione d’impresa che mi è capitato di leggere è quella di Richard Daft. Per l’eminente studioso americano le organizzazioni sono entità sociali guidate da obbiettivi, progettate come insiemi di attività strutturate e coordinate che interagiscono con l’ambiente esterno. Questo insieme di attività strutturate e organizzate che interagiscono con l’ambiente esterno, sono declinate nella struttura organizzativa (SO) dell’impresa.
Più nel dettaglio, la SO, lungo il sentiero tracciato dalle attività che caratterizzano una determinata impresa,
indica i rapporti di dipendenza formale, i numeri di livelli gerarchici e il numero di subordinati che fanno capo ai manager o ai supervisore dell’organizzazione (span of control);
identifica il raggruppamento di individui in unità organizzative e di quest’ultime nella totalità dell’organizzazione;
definisce la progettazione dei sistemi di comunicazione e di coordinamento tra le unità organizzative.

La SO definisce essenzialmente 4 elementi di una organizzazione:

1) I FLUSSI di attività, ovvero l’interdipendenza e il coordinamento delle attività interne.
Le interdipendenze possono essere: generiche, ovvero senza un rapporto diretto tra due attività, sequenziali quando l’output di una attività e l’input della successiva e infine reciproche quando due attività si scambiano vicendevolmente input e output.
Il coordinamento delle attività si riferisce invece alla descrizione dei meccanismi dell’organizzazione atti a coordinare i processi interni. Questi meccanismi hanno notevole importanza per il buon funzionamento delle attività, ed è compito di una buona struttura organizzativa garantirne la miglior efficienza possibile, considerato che il coordinamento è un costo che l’organizzazione produce.

2) Il COMPORTAMENTO richiesto dalle attività interne, che non si riferisce solo alla descrizione di quanto previsto dalle differenti mansioni assegnate, ma definisce in alcuni casi anche l’eventuale allineamento tra il comportamento previsto per una determinata attività e quello posto in essere dagli attori dell’organizzazione.

3) il CONTROLLO sulle attività, e quindi sul comportamento dei soggetti operanti all’interno di esse, viene esercitato attraverso tre forme base che traggono spunto dalla cosiddetta ”Teoria delle Transazioni”. La prima forma è quella che prevede l’esercizio del controllo attraverso il mercato, ovvero attraverso la competizione sul prezzo, la secondo forma è quella che prevede il controllo burocratico che si esplica attraverso l’utilizzo di un alto livello di formalizzazione (regole, gerarchie, documenti scritti su procedure, ecc.) e di una una forte standardizzazione dei processi. La terza forma di controllo è quella definita il controllo di clan, che consiste nell’utilizzo di fattori sociali che si richiamano ai valori condivisi, all’equità, all’impegno, alle tradizioni e alle opinioni. Le organizzazioni che utilizzano il controllo di clan sono caratterizzate da una forte cultura al loro interno che enfatizza la fiducia tra dipendenti e dove la formalizzazione e la standardizzazione risultano essere inefficaci, poiché vi è una forte incidenza ambientale che origina cambiamenti repentini interni. Vi è inoltre una forte pressione a conformarsi alle norme del gruppo e un forte coinvolgimento personale teso al massimo impegno verso gli obbiettivi dell’organizzazione.

4) Le COMPETENZE che se per un verso rappresentano soprattutto per le imprese poco immobilizzate il vero patrimonio aziendale, per altro verso possono rivelarsi una criticità rilevante all’interno del ciclo di vita di una impresa. Non di rado infatti, l’organizzazione può impantanarsi nei meandri del proprio know how, in quella che viene definita essere “la trappola delle competenze”. Tale fenomeno paradossalmente attanaglia più diffusamente le aziende di successo, che forti delle loro competenze e dei risultati ottenuti, tendono ad eccedere in specializzazione sino a diventare vittime della routine di attività sin troppo standardizzate. Ecco che viene ad interrompersi qualsiasi processo innovativo e l’impresa rischia di rimanere vittima della propria competenza, non riuscendo più a evolversi e rischiando così di perdere il proprio vantaggio competitivo. La “trappola delle competenze” nella maggior parte dei casi, ha una sua precisa evoluzione che potremmo definire su tre livelli. Si parte infatti dal livello individuale che poi tende ad amplificarsi a livello di gruppo sino ad arrivare a coprire il livello dell’intera organizzazione che tende ad allinearsi alla posizione dominante.

Partendo da questi quattro elementi fondamentali nel declinare il concetto di struttura organizzativa, si possono meglio comprendere quelle che sono le tre strutture base delle organizzazioni d’impresa:

1) La STRUTTURA FUNZIONALE è una struttura di tipo verticale che accorpa le attività in base ad una funzione comune ed è ancora oggi l’approccio prevalente nell’organizzazione aziendale. Essa, si dimostra particolarmente efficace nei casi un cui l’organizzazione è controllata e coordinata attraverso flussi verticali di tipo gerarchico e il processo di trasformazione necessita di una adeguata specializzazione. Inoltre, appare molto adatta nel facilitare le economie di scala e in presenza di un portafoglio prodotti esiguo.
A fronte di ciò la struttura funzionale si caratterizza per essere poco ricettiva ai cambiamenti ambientali e poca attenta all’innovazione, inoltre è tipicamente un tipo di organizzazione con una visione ristretta degli obiettivi e con frequenti problemi di coordinamento nella propria dimensione orizzontale. Non è un caso che per adattarsi ai repentini cambiamenti dell’ambiente in cui operano, molte organizzazioni di questo tipo, per migliorare il coordinamento e la condivisione tra unità funzionali, si trovano costrette ad integrare la struttura funzionale con dei tools tipici dei collegamenti orizzontali quali: task force, gruppi, product manager e project manager.

2) La STRUTTURA DIVISIONALE è indicata per quelle organizzazioni che avendo una notevole soglia dimensionale vengono ad essere suddivise per aree strategiche d’affari (ASA), o per busines unit, o per prodotto o anche per area geografica. Ciò che realmente distingue la struttura divisionale è il fatto che il raggruppamento propedeutico alla costruzione della struttura organizzativa è basato sugli output dell’organizzazione. Il fine è quello di snellire la burocrazia della struttura funzionale, riducendo la dimensione verticale della struttura al fine di facilitarne l’adattamento all’ambiente e la reazione verso gli accadimenti esterni. Una struttura così sviluppata nella sua dimensione verticale, rende difficile avvalersi delle economie di scala, dell’economie di specializzazione e  della standardizzazione tra le differenti linee di prodotto.

3) La STRUTTURA A MATRICE viene ad essere utilizzata quando ne la struttura funzionale ne quella divisionale garantiscono con i loro meccanismi di collegamento un buon funzionamento organizzativo poiché si è di fronte ad una organizzazione complessa che necessita di esperienza tecnica, innovazione di prodotto e flessibilità al cambiamento per essere efficace. La struttura a matrice è un potente meccanismo di collegamento sia verticale che orizzontale, che ha come caratteristica principale il fatto che sia la divisione che la funzione vengono implementati simultaneamente. Rispetto alle strutture organizzative funzionali, la forma matriciale prevede che, all’interno della struttura, gli integratori, ovvero i product manager o i project manager, abbiano la stessa autorità dei manager responsabili di funzione. Abbiamo quindi una gerarchia di tipo duale che implicitamente aumenta i problemi di coordinamento.
La forma a matrice è la struttura corretta quando vi è l’esigenza di condividere risorse tecnologiche scarse tra linee di prodotto o anche di prestare uguale attenzione verso due o più output critici, tipici di differenti strutture o ancora in presenza di un ambiente di riferimento instabile e complesso.
Per sua natura, la struttura a matrice formalizza allo stesso modo i gruppi orizzontali e la gerarchia verticale, cercando di dare il corretto bilanciamento alle due strutture. Può accadere però che particolari esigenze necessitano che la matrice si sposti di più verso la direzione verticale, piuttosto che verso quella orizzontale. Ecco perché, si sono sviluppati due varianti della struttura a matrice: la matrice funzionale e la matrice per prodotto. La prima prevede una maggiore autorità assegnata ai capi funzione, mentre agli integratori spetta solo il compito di coordinare le attività legate al prodotto o al progetto; la seconda invece prevede una autorità maggiore per gli integratori con i manager di funzione che assegnano semplicemente il personale tecnico ai progetti limitandosi quindi a fornire competenze.

Dopo aver definito i cardini essenziali di un organizzazione e le strutture tipicamente utilizzate per comporre un organigramma, possiamo addentrarci su quali sono i modelli oggigiorno più diffusi nella costruzione e nella mappatura della struttura organizzativa. Tali modelli, prendendo spunto dalle tre forme enunciate, certamente riflettono l’evoluzione più recente delle organizzazioni aziendali all’interno di una economia sempre più globalizzata.

MATRICE RAEW: (Responsability, Authority, Expertice, Workings) è un modello che si concentra sulla microstruttura organizzativa, ovvero sull’unità di misura dei livelli organizzativi: la mansione. Partendo dalle attività di base, la matrice RAEW definisce la mansione, la posizione e il ruolo all’interno di una organizzazione attraverso: l’analisi delle Responsabilità sullo svolgimento e la finalizzazione di un attività, l’analisi dell’Autorità ovvero dell’autonomia decisionale sull’attività, l’analisi su delle Capacità ovvero della conoscenza e la competenza che si hanno sulle attività e infine l’analisi sul Lavoro inteso come capacità di svolgere l’attività.
Il primo obbiettivo della RAEW è quello di potere allineare la responsabilità con l’autorità, ovvero definire il rapporto tra il responsabile e il livello di delega da questi concesso ad altri nello svolgimento dell’attività. Tale livello non di rado è condizionato da relazioni interpersonali che in tal modo compensano l’equivocità che spesso origina tra colui che ha una responsabilità di una attività e colui a cui sono delegati i poteri di gestione di tale attività.

MODELLO DI PERROW: questo modello analizza preliminarmente le unità organizzative e quindi le attività che le compongono, considerando due dimensioni: il numero di variabili nei processi (variabilità) e il numero di soluzioni a queste variabili (analizzabilità). I valori relativi a tali dimensioni vengono ad essere catalogati in gruppi attraverso una classificazione matriciale. Si ha che:
– Il primo gruppo definito dalla matrice è relativo alle attività routinarie ovvero quelle attività i cui processi presentano un basso livello di variabilità e un alto livello di analizzabilità. Nel progettare l’organizzazione riferita alle attività routinarie è auspicabile adottare una struttura meccanica, con alto livello di formalizzazione e di centralizzazione, un ampio span of control e una comunicazione dei flussi di tipo verticale utilizzando documentazione formale e standardizzata. Per quanto riguarda la scelta delle risorse umane, si possono inserire all’interno di queste attività anche persone con poca formazione o esperienza.
– Il secondo gruppo racchiude le attività definite ingegneristiche i cui processi hanno un alto livello di variabilità e di analizzabilità, poiché i compiti derivano da procedure o formule prestabilite. In questo caso, il progetto organizzativo prevede di considerare le strutture prevalentemente meccaniche, con moderata formalizzazione e centralizzazione, un moderato span of control e una comunicazione dei flussi di tipo verticale di tipo scritto e verbale. Occorre inoltre adottare  un programma formale di formazione del personale.
– ll terzo gruppo riguarda le attività definite artigiane con processi di basso livello di variabilità e di analizzabilità proprio perché basati sull’istintività e sull’esperienza del singolo. Rispetto e questo tipo di attività, occorre adottare una struttura prevalentemente organica, con un moderato livello di formalizzazione e di centralizzazione, span of control da moderato ad ampio e comunicazione dei flussi di tipo verticale e orizzontale. Il personale adatto a questo tipo di attività è chiaramente originato dal “learning by doing” ovvero da una notevole esperienza diretta di specializzazione
– ll quarto gruppo definito dalla matrice racchiude le attività non routinarie che si caratterizzano per un alto livello di varietà nei compiti e un basso livello di analizzabilità. In questo caso occorre adottare una struttura organizzativa con bassa formalizzazione e centralizzazione, span of control moderato e un programma di comunicazione dei flussi orizzontale. Circa le risorse umane, occorre un programma intensivo di formazione poiché gli attori di questi processi devono possedere una buona esperienza e specializzazione.

Il MODELLO RESOURCE BASE VIEV (RBV): nasce nel 1984 dall’economista Birger Wernerfelt e viene poi sviluppato da Jay Barney nel 1991. Wernerfelt  con questo modello si pone l’obbiettivo di estendere le strategia del vantaggio competitivo introdotta da Michael Porter con la sua teoria della concorrenza allargata. Più nello specifico cerca di correlare all’ambiente esterno all’impresa proposto da Porter una analisi interna relativa al portafoglio di risorse e competenze che risiedono nel patrimonio dell’organizzazione. Le risorse nello specifico sono i fattori produttivi in termini di lavoro e capitale in asset tangibili e intangibili posseduti dall’impresa ed utilizzati per trasformare gli input in output attraverso un insieme di attività aziendali e di meccanismi organizzativi. In questo processo di trasformazione, un ruolo importante è esercitato dalle competenze aziendali, che si traducono nella capacità dell’impresa di combinare i propri asset attraverso meccanismi organizzativi in grado di raggiungere efficacemente gli obiettivi selezionando le risorse più adatte per le competenze richieste dai fattori critici di successo. Solo così, secondo Barney,  le imprese possono assicurarsi un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo.
Il modello RBV, nell’analizzare le risorse aziendali, prevede i seguenti passaggi di selezione:
1) selezione delle unità lavorative che generano valore, ovvero che contribuiscono a mantenere un divario con i concorrenti in termini di capacità nei processi;
2) selezione delle risorse umane rare ovvero non diffuse tra i concorrenti;
3) selezione delle unità lavorative specifiche ovvero non imitabili dai concorrenti,
4) selezione delle risorse umane organizzate ovvero quelle che per il loro potenziale di utilizzo sono da considerare come elemento centrale del sistema di offerta e valutare se queste risorse sono difendibili ovvero sostenibili al proprio interno dall’impresa e imitabili nel tempo dai competitors.

MODELLO ZERO BASE REVIEW (ZBR): questo modello è spesso usato per la progettazione delle unità organizzative intermedie e prevede i seguenti passaggi:
– definizione dell’elenco delle attività, composizione di cluster delle attività e formulazione dei sottoinsiemi di attività raggruppate per unità organizzative attraverso la matrice di Perrow;
– analisi dell’interdipendenza tra i cluster di attività attraverso la matrice di interdipendenza e la network analysis;
– analisi degli orientamenti, attraverso la definizione del gap tra gli orientamenti richiesti dalle attività e quelli posseduti dall’organizzazione;
– analisi delle specializzazioni, attraverso la descrizione e la mappatura delle competenze all’interno della struttura organizzativa avvalendosi del modello RBV.
Nella progettazione di una struttura organizzativa, il modello ZBR, all’interno di una organizzazione, identifica tre tipologie di relazioni tra attività: i) le interdipendenze generiche che sono le più semplici da trattare e gestire, ii) le interdipendenze sequenziali sulle quali è necessario un presidio attraverso regole e procedure, iii) le interdipendenze reciproche, che hanno orientamento e tecniche di procedure affini e per questo occorre stiano vicine e se possibile, all’interno della stessa unità organizzativa.

MODELLO ACE: è uno strumento di mappatura delle competenze adatto alle aziende di grandi dimensioni. Esso lavora con lo stesso principio procedurale del modello ZBR, ovvero partendo dalle attività, ma ha una diversa finalità:  il modello ACE cerca di costruire un vestito organizzativo alle capacità/competenze delle persone, mentre il modello ZBR ha il fine di valorizzazione i flussi secondo criteri di efficienza.
Una prima matrice di questo tool associa le attività in funzione delle competenze necessarie per svolgerle, dopodiché, attraverso l’analisi delle colonne si viene ad identificare il numero di attività che intercettano la stessa competenza. Fatto ciò, occorre relazionare le competenze con le risorse umane che le posseggono attraverso un processo di auto-valutazione, ovvero si chiede alle persone all’interno dell’organizzazione di descrivere la loro capacità rispetto alle competenze evidenziate dalla prima matrice, attribuendo una valutazione da 1 a 5 alla loro capacità attitudinale verso quelle competenze. Viene così redatta una seconda matrice che evidenzia le attività in funzione delle competenze possedute. A questo punto del processo, è necessario allineare la prima matrice con la seconda, ovvero intersecare le attività e quindi le mansioni correlate, con le competenze possedute descritte nella seconda matrice.Viene così a definirsi una terza matrice che mette in relazione le mansioni costituenti le attività core, con le competenze possedute.

L’applicazione di questi modelli deve essere coerente con gli obiettivi dell’impresa, poichè ogni organizzazione è unica in quanto è unico il suo profilo di risorse e competenze. Il vantaggio competitivo è la diretta conseguenza della capacità dell’organizzazione di costruire, combinare, acquisire e gestire le proprie risorse e le proprie competenze.

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